Stati Uniti d’America e Canada sono mercati affidabili: il contesto operativo è eccellente, sono leader nella protezione dei diritti di proprietà intellettuale, la forza lavoro è qualificata e produttiva e le normative del lavoro strizzano l’occhio al business. Il made in Italy può esportare alimentare, fashion, tecnologia e il lusso, anche quello più sfrenato.
Anche per quanto riguarda gli IDE italiani, questi mercati offrono indubbiamente opportunità di assoluto interesse e sono caratterizzati da un approccio strutturato all’accoglimento dei nostri investimenti diretti dando inoltre la possibilità di accedere ad un mercato caratterizzato da una importante domanda interna.
Tutte rose e fiori? Non proprio, perché la barriera d’ingresso più ovvia ed evidente è la dimensione stessa del mercato Nordamericano, che lo rende ostico a chi non dispone di risorse sufficienti ad affrontarlo in maniera “globale” e “tecnicamente qualificata”. Opportuno non trascurare anche l’aspetto legale negli Usa: con la “civil and legal liability” se si sbaglia anche solo un’etichetta arriva una class action che mette fuori dal mercato.
E i paesi emergenti per l’export e l’internazionalizzazione del made in Italy? La Cina è in crescita esponenziale e pronta a diventare un mercato maturo. Importante considerare il fattore demografico: i cinesi sono giovani, curiosi e con la politica di apertura al secondo figlio (dopo la strategia di pianificazione familiare dal 1979 al 2013) il mercato interno è destinato a crescere. Il cliente modello dei prodotti italiani è un esponente della middle-upper class cinese: si calcolano essere circa 200 milioni di persone.
Anche l’India è un Paese dal grande potenziale visto che ci sono almeno 50 milioni di persone con capacità di spesa notevole, ma con barriere di ingresso, soprattutto di natura culturale, non trascurabili.